C’è qualcosa di poeticamente disordinato nell’immagine di Mario Adinolfi che, sudato e mal rasato,
incespica su una spiaggia tropicale, cercando di accendere un fuoco con due pietre mentre una
telecamera lo inquadra a tradimento. L’inquadratura non è impietosa. È solo, com’è sempre il caso,
sincera.
Il disagio di chi guarda (e si riconosce)
Chi lo osserva da casa (Adinolfi, stando alle ultime indiscrezioni, dovrebbe essere tra i partecipanti de l’Isola dei Famosi in partenza il 7 maggio 2025, ndr), magari tra un sorso di chinotto e un tweet al vetriolo, avverte subito quel misto di disagio e attrazione che si prova davanti alle contraddizioni ambulanti. C’è qualcosa che
non torna, e proprio per questo torna tutto: l’uomo che predica ordine morale immerso nel caos
sudaticcio di un reality show. L’uomo che brandisce il Vangelo a colpi di post Facebook si trova ora
a dover convivere con l’assenza di wi-fi e, forse peggio, con l’assenza di pubblico. Ma il pubblico c’è. E guarda.
La mistica della contraddizione
Adinolfi è il tipo di figura che sfida le etichette. Non perché le superi, ma perché le colleziona. Ex
giovane democristiano, poi passeggero occasionale del Partito Democratico, poi profeta del
familismo teologico in versione talk show. Tutto questo mentre invoca i valori della tradizione con
la stessa serietà con cui cita i Simpsons o difende la carbonara “vera” su Instagram.
Non è un moralista. È un moralizzatore disilluso che si è abituato a vivere nella contraddizione
come altri vivono nella nebbia: con fastidio, ma senza volerne uscire davvero. Le sue crociate sono
grottesche, certo. Ma anche, in qualche modo, tenere. Come guardare un vecchio Don Chisciotte
tentare di caricare un mulino a vento mentre si aggiusta il microfono della diretta su Twitch.
Adinolfi e la teatralità tra condanna e salvezza
Il punto non è capire cosa Adinolfi pensa davvero. Il punto è che lo pensa in pubblico. Sempre. E
poi lo ripensa. E poi lo nega, con la stessa faccia. E lo ripropone, stavolta in formato reels. Sull’isola, lontano da Roma e dai suoi talk, gli resterà probabilmente poco: l’ingombro della propria teatralità e una
briciola d’intuizione, forse, che il mondo non ha bisogno di profeti ma di figure goffe, umane, che
cadono e si rialzano con il costume strappato. La bellezza – e sì, c’è una bellezza in tutto questo – è nel fatto che lui non finge di non voler piacere. È disperatamente in cerca di attenzione, certo. Ma in modo così palese, così infantile, da risultare quasi disarmante. Come un bambino che costruisce una cattedrale con i Lego e si offende se non viene trasmessa in prima serata.
Forse questa partecipazione è la sua forma più alta di sincerità. La verità si annida sempre dove
meno te l’aspetti: tra una prova ricompensa e una discussione su chi ha rubato il riso.
Alla fine, ci sono uomini che giocano a dadi con le parole e altri che fingono di credere alle regole
mentre ne riscrivono silenziosamente il codice. Qualcuno, come lui, ha percorso i corridoi della
politica, della stampa, della fede, dell’ego, lasciandosi dietro più firme che impronte. Eppure resta
sempre lì, a mezza altezza: mai del tutto dentro, mai davvero fuori. Come se stesse seguendo un
disegno tracciato altrove, con strumenti che nessuno ricorda di aver insegnato a usare.

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L’Isola: il reality come rito di passaggio
Ci sono cerimonie che non si celebrano in chiesa, né in parlamento, né in prima serata. Si
consumano nell’oscurità tra due frasi contraddittorie. In quella sottile linea d’ombra dove l’uomo si
inginocchia non per umiltà, ma per farsi notare meglio. Lì dove i giuramenti cambiano forma, ma
non spirito. Dove ogni errore viene registrato, ogni disordine previsto, ogni incoerenza accettata come prova di un cammino. Non verso la redenzione, ma verso un sapere tacito, dissimulato. Più antico dei format, più paziente delle ideologie. E forse anche questo reality, alla fine, è solo un’altra iniziazione.
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