Il capolavoro della scrittrice sarda e la sua trasposizione cinematografica diretta da Isabelle Coixet, un’opera fatta di piccoli grandi racconti e gesti, elogio e commiato alla vita, inno all’opera di Michel Murgia.
“Tre ciotole” è l’ultimo libro scritto da Michela Murgia, edito nel 2023 da Mondadori, con oltre 200 mila copie vendute, pochi mesi prima della prematura scomparsa della scrittrice sarda. Testamento, compendio esistenziale e conclusive memorie in prosa, l’opera è un’analisi di vita e morte attraverso la malattia, il rigetto del cibo e una carrellata di dodici storie diverse che condividono una fase fragile e complessa della vita da affrontare e a cui sopravvivere.
In “Tre Ciotole”, Michela Murgia sfida il fantasma dell’abbandono e lo spettro di un corpo che si ammala attraverso un carosello di luoghi e tempi che si fanno sempre più rarefatti, ma che continuano a indicare il legame, potente, con la vita terrena. Una relazione finita e il vomito compulsivo sono invece i due tasselli di un tempo dichiarato di amnistia con sé stessi, in cui iniziare ed elaborare la separazione, da un compagno così come anche dalla propria vita.

La fragilità che si fa forza
Attimi potenti di esistenza che si fanno spazio in un luogo indefinito che abbraccia il disagio e la paura, ma che è anche libertà e cesura netta con il senso del limite. Il tutto ritualizzato nel profilo di quelle tre ciotole matrioska, escamotage pragmatico per dare al corpo, con ordine e rigore, quel poco che è ancora in grado di accettare e assimilare, e che rappresenta il numero perfetto di un equilibrio patteggiato tra inizio e fine, ripartenza e stasi.
“Le tre ciotole rimettevano a posto tutte le gerarchie tra stomaco e cervello. Potevo prendere il cibo da una sola o da tutte, senza un ordine preciso. Potevo svuotarle in un colpo solo o consumarle a tappe all’ora che preferivo, bastava che a fine giornata tutte e tre fossero vuote, perché́ quello che contenevano era il minimo indispensabile”.
Nelle pagine di “Tre ciotole”, opera scritta in uno stato di grazia e testamento spirituale della Murgia su come affrontare le avversità del destino – richiamando capolavori come “La fine è il mio inizio” di Tiziano Terzani o “Il crollo” di Francis Scott Fitzgerald – si trovano anche lucide riflessioni. L’autrice esplora il fastidio per i figli altrui, le angosce relazionali, i corpi che cedono come riflesso di un blackout mentale o segnale di insofferenza verso la vita.

Esistenze lesionate e la ricerca di vitalità
Esistenze che si autoinfliggono ferite e dolori per intercettare l’attenzione di un mondo su più livelli indifferente. Vite variamente lesionate e che nel cosciente autolesionismo ritrovano il loro lucido sprazzo di vitalità, mutando la fragilità in forza. E poi, ancora, sagome di cartone che diventano confidenti e amanti, pretoriani in miniatura che segnano una resistenza creativa a giornate tutte uguali, bocconi di cibo usati per colmare spazi grigi di un vivere che affronta processi coatti e inesorabili di de-saturazione. Una via crucis emotiva che si cristallizza nella gioia di vivere e condividere il tempo che c’è, e la vita che resta.
Tre ciotole: dal libro al film
Già presentata in anteprima mondiale al Toronto Film Festival, arriva adesso nelle sale – dal 9 ottobre con Vision Distribution – la trasposizione cinematografica del romanzo di Michela Murgia, una co-produzione italo-iberica per la regia della spagnola Isabelle Coixet. Autrice nota per la sua mano delicata e che aveva già trattato agli esordi della sua carriera tematiche legate alla malattia – “La mia vita senza di me” 2003 -, oltre ad aver spesso affrontato il mondo femminile negli scarti della propria incomunicabilità – “La vita segreta delle parole 2006 -, complessità e sospensione, sempre a braccetto con i sentieri tortuosi delle relazioni – “Lezioni d’amore” – 2008 -.

Isabelle Coixet e l’adattamento cinematografico
Con “Tre Ciotole”, la Coixet torna dietro la macchina da presa per confrontarsi con un’opera fatta di piccoli grandi racconti e gesti, che sono elogio e commiato alla vita. Un’opera complessa nella stratificazione personale di sentimenti ed emozioni che nel passaggio dalla parola scritta all’immagine subiscono una necessaria riorganizzazione e semplificazione, per una sfida non facile affrontata comunque a testa alta. Perché, pur nella sua evidente diversità strutturale e nella distanza narrativa, “Tre ciotole” film continua a vibrare di impellenti stati d’animo e forti percezioni estemporanee.
Isabelle Coixet mette a fuoco con occhio attento e fine mano femminile il cuore dell’opera della Murgia. Nella destrutturazione e ricomposizione dei componenti narrativi, su sceneggiatura a quattro mani della stessa Isabelle Coixet insieme a Enrico Audenino, la regista spagnola ricuce una narrazione efficace (a tratti commovente) poggiata sui respiri dei suoi protagonisti, ottimamente interpretati dai due intensi Alba Rohrwacher ed Elio Germano, sullo sfondo di una Roma bella e decadente, viva ma di pura e sfuggente anarchia.

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Il viaggio dei protagonisti e la sinfonia della vita
Il viaggio di elaborazione e accettazione compiuto dalla Marta di Rohrwacher coincide nel movimento disordinato dei suoi capelli, nell’associazione noncurante del suo abbigliarsi e nel rapporto ostinatamente scombinato con il cibo. Ma anche nelle confidenze fugaci con la sorella Elisa – Silvia D’Amico – e il collega Agostini – Francesco Carril -. Ad accompagnare quel processo di involuzione scandito nei silenzi e poi nella rapida esplosione del suo io, simboleggiato da quelle tre ciotole di coccio che diventano oggetti e amuleti con cui riordinare ciò che resta. Accanto a lei si muove l’Antonio di Elio Germano, cuoco romano verace e sempre più assorbito dal suo lavoro, a incarnare il contenzioso di un uomo teso tra routine e reazione, ricordo e proiezione.

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La Coixet si concentra a omaggiare l’opera di Michela Murgia
Da un lato ci sono i flashback, memoria di un tempo felice di coppia, nato da un supplì conteso e poi mutato nell’affinità elettiva di due esistenze “non ordinarie”. Dall’altro si muovono invece le istantanee di un presente complesso segnato dal distacco e dalla presa di coscienza della malattia. E nello scarto tra i due tempi, la Coixet si concentra a omaggiare l’opera della Murgia nella sua essenza, rendendo onore all’emozione, tragicamente disordinata eppure viva, di una clessidra del tempo che si appresta a iniziare il suo conto alla rovescia.
Il corpo, il cibo, la malattia, la separazione e il senso di morte diventano così una sorta di sinfonia per i vivi, nel contrappunto musicale segnato da un trio di brani potenti: “Sant’Allegria” di Ornella Vanoni e Mahmood, “I Get Along with You Very Well” cantata da Nina Simone e “Ti ricorderai” di Luigi Tenco in chiusura.
Un quadro narrativo che si costruisce nei dettagli dello stato di crisi e che, pur nelle distanze e nelle inflessioni più romanzate del suo incedere, riesce a riprodurre la sintassi emotiva del libro, parlando di morte spingendoci ad amare intensamente la vita. Un’ode esistenziale a quei passaggi – e paesaggi – esistenziali che segnano il nostro destino e definiscono in maniera netta anche chi siamo, e chi siamo stati.
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