Nel bellissimo incipit alla quarta attesissima stagione di The Bear, serie oramai di culto sul mondo dell’alta cucina e in onda su Disney+ con dieci nuovi brillanti episodi, si “Ricomincia da capo”. Letteralmente. La serie riparte infatti con il flashback digressivo ed esplicativo sulle ragioni fondanti dell’esistenza del The Bear, nel rimando nonché raffinato omaggio al “Giorno della marmotta”, indimenticata commedia esistenzialista con Billy Murray. E, qui, il cuore di The Bear si fa profondo, a tratti epifanico. Come uscire da una fase di stallo, dal confort della consuetudine, dalla sicurezza generata dal ripetersi (ogni giorno identico a quello precedente come accadeva nel succitato film?).

È proprio a questa insidiosa domanda che la serie prodotta e diretta da Christopher Storer, giunta alla soglia della maturità, cerca di rispondere per dare una svolta narrativa, e concettuale. Ripartendo dalle vicende dell’uragano Carmen Berzatto detto “Carmy”, dal suo indiscusso talento, dal suo controverso rapporto con gli altri, dai suoi dubbi. E dalle sue tante e combattute volontà.
Precipitato nel lutto, costretto ad affrontare guerre e tempeste interiori, spinto a traghettare il vecchio The Beef nel rinnovato The Bear in memoria e omaggio al compianto fratello Mikey. Il nuovo Carmy come un moderno Ulisse è ora però, dopo lungo peregrinare, forse pronto a far ritorno alla sua terra. Alla sua Itaca. Qui intesa come il sogno ultimo di una cucina stellare, magari anche stellata. Ma solo dopo aver ritrovato il suo centro, di uomo ancor prima che di chef. Anche in qualità di membro di una famiglia (allargata, che attrae nel suo microcosmo tutti coloro che orbitano attorno al vorticoso The Bear) che sembra sempre barcollare sotto il gravoso peso delle disfunzioni relazionali. Ma che produce ancora tanta linfa vitale.
In attesa della Stella
E ancora una volta nella cucina di Carmy, tra poche e affannate risorse, soldi che scarseggiano, tempi e numeri stabilmente da battere, si attende e si lavora alacremente al fine di conquistare l’ambita Stella. Ma non solo Michelin. Perché la stella per cui si lotta con ardita dedizione e affannoso zelo – da ben tre stagioni – tra le mura del locale di Chicago rappresenta il mezzo ma anche il fine. Il percorso e la meta. E una realizzazione ultima che fa forse rima con pace interiore. Lo stato di grazia, racchiuso nel difficile e intimo equilibrio che in vita sempre s’insegue. Un obiettivo che alla stregua del piatto perfetto, originale ma essenziale, attraente ma verace, tende a sfuggire di mano al profilarsi di ogni successivo orizzonte.
Sliding doors che mettono duramente alla prova ma che costringono a evolversi, a trovare vie alternative di guarigione e salvezza. Sterzate benefiche via dal lutto, dalla perdita, dall’assenza. Come esporre la decisione di una vita prendendo a prestito la semplicità di un pigiama party. O trovare rifugio da una cerimonia di nozze, picco di paure e ansia da prestazione, sotto a uno dei tavoli del banchetto. Carmy, Sidney, ma anche Natalie, Richie, Tina e tutti gli altri coprotagonisti dovranno dunque evolversi e cambiare passo. Trovare il loro equilibrio nello squilibrio di una cucina che rappresenta in tutto e per tutto il caos primigenio delle relazioni e dell’esistenza. Per farlo, dovranno ripartire dalle parole taglienti ma incisive del Chicago Tribune. E da quelle dissonanze culinarie che ancora si frappongono tra il The Bear e il suo trionfo.

La cucina è la star di cinema e tv
Da The Bear ad Aragoste a Manhattan, l’irresistibile fascino del cibo narrato. di Elena Pedoto
The Bear: come risorgere dalle proprie ceneri
Ma in questa quarta stagione, più raccolta e assennata che mai, non manca comunque l’anima della cucina quale luogo, a tratti miracoloso, di aggregazione e condivisione, convivialità e fuga dalla propria soffocante solitudine. Ricorrente, infatti, è qui il tema del ristorante come metafora di socialità, luogo per antonomasia associato a momenti belli, memorabili, e di variabile gioia. Non solo tra i tavoli dei clienti, ma anche tra le fila di una brigata che si fa sempre più famiglia.
Una famiglia sgangherata ma forte, riassunta nello sforzo costante del protagonista Carmy di spingersi oltre i propri limiti, creativi ed emotivi. Di uscire dal proprio blocco esistenziale e lasciarsi avvicinare, sfiorare, conoscere. Di cedere alla paura del cambiamento. Di andare oltre il trauma, il dubbio, e la raggelante paura di fallire. Sul lavoro così come negli affetti. Per poter abbracciare una vita più sincera e reale, anche in tutti i suoi fisiologici tracolli. Sentirsi di nuovo vivo. E risorgere dalle proprie ceneri.

Il caos della famiglia Berzatto in The Bear 4
Sono tante, e sono tutte umanità fragili e bellissime quelle che s’incrociano e s’intrecciano sullo sfondo del The Bear. Regina indiscussa qui è la disfunzionalità dei rapporti. Esemplare quella accorata di una tragica Jamie Lee Curtis nei panni di Donna Berzatto, madre di Carmy. Lampante anche nell’assolo di Zio Jimmy (un sempre magistrale Oliver Platt) contro il silenzio di una porta chiusa, o nel monologo struggente di Georgie a un incontro degli Alcolisti anonimi, dove passano di riflesso e, in sintesi, tutte le sfumature della condizione umana.
Paura, ansia, ossessioni, infelicità, variamenti declinati nella urgente necessità di trovare interlocutori che parlino la nostra stessa lingua. Li cerchiamo in famiglia, tra gli amici, sul lavoro, e nelle relazioni interpersonali. Li cerchiamo istintivamente e ossessivamente. A volte li troviamo e poi, inopinatamente, ne restiamo delusi. Altre volte, invece, li intravediamo tra le ombre di un destino confuso e proviamo ad avvicinarli piano, come per cercare di non incrinare l’idillio. E se in loro scopriamo quella voce famigliare, quel pensiero comune che ci mette a nostro agio, proviamo a trattenerli con noi. Per sempre o il più a lungo possibile. Vale per le persone così come per le passioni. E vale per le famiglie. Quelle che noi consideriamo tali.
Cosa conta davvero?
Perché alla fine “ciò che conta è sapere che qualcuno si preoccupa per noi”. Anzi, è la cosa più importante. Questo, ci dice e ci urla quest’ultima travolgente stagione di The Bear, insinuandosi nei ritagli di vita dei suoi bellissimi protagonisti, e dando voce ai loro tanti assoli esistenziali. Tra imponenti raffiche di pioggia e lievi spolverate di neve.

The Bear: i ristoranti possono aiutarci a capire la vita?
Filosofia e ristoranti secondo The Bear: il senso della vita si nasconde tra i piatti, i ricordi e il bisogno di prendersi cura degli altri. di Valentina Ariete
The Bear 4: ricca di incantevole sentimento e insolita maturità
Christopher Storer mette dunque a segno un’altra stagione su più fronti memorabile, ricca di incantevole sentimento e insolita maturità. E come per il vino poeticamente descritto come istantanea del tempo e del luogo in cui si forma, anche questa serie è specchio e voce di uno stato emozionale che assorbe ogni tempo ed emozione circostante. Ed è questa capacità peculiare di guardare vicino e nel profondo delle emozioni umane, con piani stretti, dialoghi serrati, tensione d’impianto teatrale, e una colonna sonora pazzesca e magistralmente dosata (anche Led Zeppelin, Pretenders, Bob Dylan, Lou Reed, Elton John, Taylor Swift, R.E.M., Oasis nella vastissima selezione), che segna ogni passo e raccordo emotivo, a rendere questo prodotto così tanto in grado di connettersi al vissuto dello spettatore. Una serie che, episodio dopo episodio, stagione dopo stagione, ci assorbe e ci sprofonda dentro. Per restarci, probabilmente, molto a lungo.
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