Milano, anni ’90. Un periodo storico vibrante, dove la città si trasformava sotto l’eco della “Milano da bere”. In questo contesto, una giovane e ambiziosa Terry Monroe muoveva i primi passi nel mondo della notte. Un mondo all’epoca considerato “di ripiego”, un terreno fertile per chi non voleva studiare o un rifugio temporaneo per gli studenti notturni.
Ma Terry non era come gli altri. Non voleva essere “la cameriera chiamata con lo schiocco di due dita”. Lei, affascinata dal “lavoro del banco”, voleva fare la differenza. Con caparbietà e una dose di sana incoscienza, si tuffò in corsi professionali costosi, lavorando come cameriera, animatrice e persino sulle navi da crociera, esperienze che le diedero un assaggio di quel “Truman Show” che non faceva per lei. Ma la notte, quella sì, la chiamava. C’era un palcoscenico dove “perdersi e trovarsi”, un luogo dove sentirsi “un po’ principessa, un po’ una mezza regina”. E Terry voleva quel palcoscenico tutto per sé.
A spasso nel mondo di Terry Monroe
“Partiamo dagli inizi. Come è stato l’approccio a questo settore?
“Come l’80% di quelli che poi fanno questo lavoro, inizio come “avanzo”, in un mondo dove il banconiere era considerato meno capace del barista. Le donne dietro il banco? Concesse in discoteca perché facevano un pochino visual, ma io non ci stavo. Volevo di più. Ho fatto corsi professionali, ho lavorato ovunque, dalle discoteche alle navi da crociera. Ma è stata l’esperienza al gruppo Hollywood, e soprattutto al Dixieland Cafè, a formarmi come bondello, a darmi la capacità di controllare e vivere il caos della notte”.
Cosa si intende con “formazione bondello”?
“Dixieland era un posto che macinava dai 1.200 ai 2.500 passaggi. Iniziavo alle quattro del pomeriggio a tagliare limoni e finivo alle tre di notte a pulire. Lì ho imparato a gestire il caos, a tenere il ritmo, a non farmi sopraffare. Loolapalooza mi ha formato come bondello, con la capacità di controllare e viverli insieme. E poi il passaggio all’Old Fashioned, la Milano da bere, dove alle due dovevi assolutamente essere chiuso e potevi entrare bussando la claire. Che tempi!”.

L’Opera e la rivoluzione della miscelazione
E poi arriva l’Opera 33, nel 1997.
“Ero molto giovane, avevo 22 anni. Stufa di lavorare per gli altri, tutte le sere mi chiedevo perché non potessi fare qualcosa per me. In quel periodo ero un’idealista, non una persona concreta. All’inizio è stata dura. Lavoravo sia all’Opera 33 che al Dixieland, dormivo a pezzi, facevo la pennichella di notte dalle tre alle sette e di giorno dalle tre alle sei. Ma poi ho deciso di dedicarmi solo all’Opera 33, e lì è iniziata la vera rivoluzione. La via dove si trova Opera all’epoca era sacrificata, non c’era competizione né una rete per creare lavoro, ma io volevo fare qualcosa di diverso. Milano era Cuba Libre, Milano era Pina Colada, io volevo sperimentare con erbe e spezie. Avevo l’aspirazione di diventare un erborista e volevo portare la mia passione nel mondo della miscelazione.
Alchimia, cocktail e spezie. Tanti ci giocano, oggi…
“Si, ma io ci lavoro dal 97. La gente mi guardava strano, ma io andavo avanti. Ho ancora delle drink list con ciò che si beveva allora. Facevamo la Bresaola con polvere di zenzero, cannella e scorza di limone come side! Il mio approccio con le erbe e le spezie era dettato già allora dalla lotta allo spreco, invece di buttare via frutta e verdura, usavo spezie come la cannella e creavo mix unici per i drink. Valorizzando così anche i liquori che già contenevano certi ingredienti. Studiavo scienze erboristiche e volevo usare le erbe non solo come fitofarmaci alcolici, ma con la logica dei vini e dei liquori antichi”.
Milano, il mondo e l’evoluzione del settore
Come è cambiata Milano e il settore in questi anni?
“Il settore è un settore meraviglioso, comunque e sempre. Da cittadina non è cambiato niente. Cambiano le mode, cambiano i vestiti, cambia il drink che bevi, ma il mondo della notte ha sempre il suo fascino. Milano, per me, resta sempre “the place to be”. Ti dà la possibilità di confrontarti con il mondo, devi dare un pezzettino in più per dimostrare a Milano che ci sei. E il settore è diventato più complesso, più sofisticato. Qui puoi avere veramente 200 cocktail bar che fanno proposte differenti”.
Pairing e Alchimia dei Sapori: l’Approccio Olistico di Terry Monroe
Parliamo del pairing. Oggi sembra che tutti vogliano abbinare cocktail e cibo. Qual è la tua visione?
“C’è una tendenza a proporre pairing forzati, spesso con cocktail troppo acidi o invadenti che coprono i sapori del cibo. Io credo che un abbinamento debba essere armonico, un dialogo tra il piatto e il drink. Immagina una sinfonia: ogni strumento ha il suo ruolo, ma tutti contribuiscono all’insieme. Un buon pairing è come un assaggio che si completa, con quattro parti di non alcol e una di alcol. Non è una competizione tra sapori.”
Quindi, non è solo una questione di moda?
“Assolutamente no. Quando scegli una bottiglia di vino per accompagnare un piatto, lo fai con cognizione di causa, considerando la complessità del piatto, la sua storia, i suoi ingredienti. Lo stesso deve valere per un cocktail. Ogni ingrediente è un alimento a sé, con la sua identità e il suo ruolo. L’abbinamento deve creare un’esperienza, un viaggio sensoriale, non un mero esercizio di stile. Mangiare deve essere un’esperienza, e bere deve essere qualcosa che o va in sinergia o crea contrasti perché l’esperienza sia ancora maggiore”.

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Un drink deve essere piacevole, memorabile, con qualcosa di speciale
Cita spesso il concetto del “mangiare per cortesia”…
“Si, così lo chiamo io. In un fine dining, il cibo è anche un pretesto per la conversazione, per la condivisione. Se il pairing è troppo pesante o invadente, si perde questa dimensione. Mi infastidisce vedere pairing fatti con piatti interi accompagnati da un drink singolo, che finiscono per sovrastare il tutto e annullare il piacere della scoperta. Ci deve essere un’esperienza nella tavola, fatta di profumi e sapori, che va al di là della necessità e va dritta all’esperienza. Oggi c’è una grande offerta di cocktail, tanti pre-mix, prep, lavorazioni. Ma secondo me spesso si perde la finezza del gusto, l’attenzione al dettaglio. Un drink deve essere piacevole, memorabile, con qualcosa di speciale. Deve raccontare una storia, deve avere un perché. Altrimenti, è solo un esercizio di tecnica”.
Bartender contemporanei: tra presunzione e poca identità
Cosa pensa dei suoi colleghi più giovani? C’è un eccesso di presunzione?
“Diciamo che a volte noto una certa superficialità. Si tende a voler miscelare tutto con tutto, senza conoscere a fondo la materia prima, la struttura di un distillato, la storia di un ingrediente. È come se un pittore usasse tutti i colori senza sapere come si mescolano, senza capire le sfumature. E poi, c’è questa mania di usare tanti brand solo per fare visual, senza un vero motivo. Ricordo un episodio in cui dei colleghi volevano mettere insieme Savoy e Cordusio in un drink solo per il nome, senza considerare le caratteristiche dei due prodotti. Ma perché?”.
Cosa pensa dell’identità del bartender oggi?
“Credo che a volte si tenda a scimmiottare gli chef, a voler fare a tutti i costi qualcosa di elaborato, di ‘cucinato’. Ma il bar ha una sua identità, una sua storia. Il Negroni, l’Hanky Panky, il Martini… sono icone, simboli di uno stile, di un modo di essere. Non possiamo dimenticare le nostre radici. Il Gin Tonic è un grande classico, ma non è tutto il bar. C’è molto di più da scoprire e da raccontare”

“Cromococktail”: un manifesto di gusto e colore
Cromococktail è molto più di un libro di ricette, vero?
“È un invito a cambiare mentalità, a vedere il bar in modo diverso. Non volevo fare un semplice ricettario, ma un libro che stimolasse la creatività, che invitasse a sperimentare partendo dal colore, dalla materia prima, come farebbe uno chef in cucina. E poi, volevo ‘schiaffeggiare’ il mercato, dicendo che il limone non va bene per tutto! Nel libro, ci sono solo tre drink in cui ho ammesso che il limone è necessario. Ho scritto questo libro pensando al bevitore, non solo al bartender. Voglio che le persone si avvicinino al bar con curiosità, con voglia di scoprire, di assaggiare. Che si sentano libere di chiedere, di sperimentare. Chi beve è il cliente, non il bartender. Se fosse il contrario, sarei chiusa il sabato sera!”.
Altri progetti editoriali all’orizzonte, o almeno nei sogni?
“Mi piacerebbe fare uno spin-off sugli ‘errori della miscelazione’, un manuale tecnico che spieghi il perché e il percome di ogni ingrediente, perché la chimica comanda. Quando lo zucchero incontra l’alcol e inciampa in una foglia di basilico con il limone che lo guarda da lontano, qualcosa sta accadendo. E noi dobbiamo capire cosa”.

Il futuro del bar è nel viaggio e nella condivisione
Più in generale, cosa si aspetta dal futuro?
“Mi piacerebbe che il bar tornasse a essere un luogo di viaggio, di scoperta, di condivisione. Che ci si aprisse di più alle influenze internazionali, senza dimenticare le nostre radici. Che si smettesse di scimmiottare la cucina e si (ri) scoprisse l’identità del bartender, fatta di tecnica, di creatività, di passione. E poi, mi piacerebbe incontrarti tra dieci anni e chiederti: ‘Cosa beviamo di nuovo? Ci sono novità?’ Sono sicura che avremo ancora molto da raccontarci e da assaggiare”.
Terry Monroe, semplicemente un’icona
Terry Monroe non è solo una barlady, è un’artista, un’alchimista, una visionaria. Con la sua vivacità intellettuale, la sua capacità e la sua caparbietà, ha trasformato il mondo della notte milanese, portando la miscelazione a un livello superiore. Cromococktail. La chimica del colore nella miscelazione contemporanea è il suo testamento, un libro che va oltre le ricette, un viaggio nel suo mondo fatto di profumi, aromi e colori. E noi non vediamo l’ora di scoprire cosa ci riserverà il futuro, perché con Terry Monroe, la novità è sempre dietro l’angolo.
Che meraviglia ❤️