Domenica 8 e lunedì 9 giugno 2025, l’Italia ha vissuto un momento cruciale con lo svolgimento di cinque referendum abrogativi. L’esito? Rigori e golden goal ad libitum. Ha vinto il partito di governo: quello del voto in cabina, ma sulla spiaggia. Ha vinto la sinistra italiana, sempre più ininfluente e distante che però minaccia “14 milioni di persone al voto, ne riparliamo alle politiche“. La sinistra sorniona. Ha vinto Matteo Renzi l’eterno uomo delle analisi: “Grande rispetto per chi è andato a votare. Ma c’è una enorme sconfitta per una sinistra che non ha più idee e credibilità e che non riesce a mobilitare neanche i propri elettori“. E con lui, quando si tratta di scollamento e credibilità, c’è da stare “sereni”.
Il referendum del voto perfetto (Che Non Esiste)
Per farla breve: bassa affluenza, fermata al 30,6%, ben lontana dalla soglia necessaria. Successive chiacchiere come uso e costume italico, pratica respinta e archiviata. Ma ha perso qualcuno, qualcosa? Si, la democrazia, e di sghembo i cittadini. O viceversa. Questa, la cronaca di qualche mese di “…qualcosa di cui sparlare”. Adesso tutti al mare, fuori da quella cabina elettoralspiagesca suggerita dal governo di una donna, madre e cristiana.
Poi ci sono le riflessioni semiserie di un elettore perplesso, come il sottoscritto. Sono tornato a votare. Non per sbaglio, non per dovere civico, non perché c’era il gazebo con i gadget biodegradabili. Sono tornato a votare per convinzione. Oppure per quel simulacro residuo di convinzione che assomiglia alla fede ma ha il gusto del riciclo. Plastica delle illusioni, vetro delle speranze, carta dei programmi elettorali.
Referendum, parola bellissima. Suona talmente bene, che sembra quasi il nome di un gruppo musicale norvegese o di un disturbo gastrointestinale – talvolta e per taluni, spesso lo è! -. Ho letto i quesiti del referendum, li ho riletti, li ho capiti – credo -, ci ho creduto – un po’-, ho barrato – molto – e poi ho aspettato, come si aspetta il treno che non passa mai nella stazione della sinistra. E ho perso. Come sempre. Come da tradizione, come da calendario lunare, come da karma karmico e carminio.
“Dì qualcosa di sinistra!“
Mi torna in mente un uomo che urla. Lo vedo, lo sento, lo sogno: “Dì qualcosa di sinistra!“. Lui lo dice, l’altro tace. Io ascolto, nessuno risponde. E nel silenzio assordante del centrosinistra, io che di centro ho solo la taglia delle mutande, mi trovo ogni volta a chiedermi: “Ma dove siamo rimasti? E soprattutto, con chi?”.

Referendum 2025, l’Italia al bivio: lavoro, cittadinanza, democrazia
Lavoro, cittadinanza e futuro del Paese: ecco cosa c’è in gioco e perché andare a votare è cruciale. di Gabriele Caruso
Non votavo da anni. Non per snobismo, non per anarchia, ma perché sentendomi socialdemocratico europeo, cioè una creatura mitologica ormai in via d’estinzione tipo il panda o il tabaccaio gentile, mi guardo intorno e vedo: a destra, i fascisti con l’iPhone, al centro, il voto perfetto, quello che ti fa sentire di destra ma non fascista, di sinistra ma non troppo, europeista ma solo con gli aperitivi. A sinistra vedo solo il deserto. Con due tende e un palco montato male, dove ogni tanto qualcuno sale a parlare di diritti mentre dietro si litiga su chi deve portare i cavi audio. Non mi piacciono i leader forti. Non mi piacciono i leader carismatici. Vorrei un leader neutro, opaco, che parli piano e faccia molto. Uno che cammini nei corridoi della storia con le pantofole e il bilancio dello Stato in mano.
Vorrei votare un’idea semplice (anche al referendum)
Vorrei votare delle idee. Non dei nasi, non dei ciuffi, non dei “ce lo chiede l’Europa” né dei “dobbiamo accelerare”. Vorrei votare un’idea semplice. Per esempio che il lavoro valga più del profitto, oppure che la pace non sia solo un hashtag. E ancora, mi piacerebbe votare un’idea bislacca tipo che il pianeta venga salvato anche quando non conviene. Vorrei votare mosso dalla folle idea che la scuola serva a far pensare, non solo a stare zitti. E non mi dispiacerebbe spendere il mio voto perché i diritti non siano più frivolezze colorate e di moda, ma semplicemente diritti di diritto. Però poi è necessario vivere la realtà, tornare a camminare su questa terra.
Votare un’idea non è possibile. Le idee si nascondono dietro le facce, e le facce dietro le bandiere, e le bandiere dietro gli sponsor. Gli sponsor dietro gli algoritmi. E intanto l’energia dell’idea si disperde. E si perde! Con stile, come chi va a una festa sbagliata con l’abito giusto. Si perde con dignità, come chi si ostina a leggere i programmi elettorali anche dopo cena. Si perde con eleganza, come chi ancora si siede al seggio pensando che conti qualcosa.

Votare prima, per non pentirsi dopo
Ma torno a votare. Perché non so stare zitto. Perché ho paura che un giorno, quando anche l’ultimo referendum sarà stato sostituito da un sondaggio su Instagram, io mi svegli e dica: “Ma davvero credevamo che votare non servisse?”. E quel giorno, sì, avrò perso. Non come adesso, che ho perso con dignità. Ma per sempre. E allora torno. A votare, anche per un referendum. A perdere. Con un sorriso un po’ sghembo e una matita copiativa come unica arma. Che non segna l’anima, ma almeno lascia il segno.
Ma al di là delle analisi politiche e delle riflessioni personali – e semiserie -, ciò che emerge con forza da questo referendum è la necessità di una rinnovata partecipazione civica e di un dialogo costruttivo tra le diverse forze politiche. L’astensionismo, purtroppo elevato, dovrebbe spingerci a riflettere su come rendere il processo democratico più accessibile e significativo per tutti i cittadini. Solo attraverso un impegno attivo e informato potremo garantire che le decisioni prese riflettano veramente la volontà popolare e che il futuro del nostro Paese sia costruito sulla base di valori condivisi e di una visione comune.
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