“Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”- Lev Tolstoj, Anna Karenina. Ecco Tolstoj che con le sue parole apre il sipario con l’eleganza disarmante di chi ti dà una spallata leggera, quasi educata, prima di buttarti giù da una rupe. E io, fino a ieri o al mio quarantaseiesimo compleanno, quella frase la consideravo una di quelle citazioni da tazze da tè o da post Instagram con sfondo pastello.
Sapevo che parlava di qualcun altro, di un’altra epoca, di famiglie russe infelici con salotti pieni di polvere e samovar spenti, e non della mia, non della nostra, non di chi ogni giorno cerca di gestire il caos derivante da un QI, un DSM, un PEI, un acronimo qualsiasi che impacchetta in un’etichetta la complessità neurologica e l’inspiegabile bellezza e fatica di mio figlio.
Poi arriva un giorno, o una serie di giorni tutti uguali in fila, come biscotti bruciacchiati in una scatola di latta, in cui capisci che quella frase è vera. Che non c’è modo di essere infelici allo stesso modo. Che neanche la tragedia sa essere democratica.
Crescere nel silenzio: un dialogo che nessuno sente
L’infelicità. La mia, la sua, la nostra, è una cosa tutta strana, tutta asimmetrica, come un tavolo traballante che cerchi di raddrizzare mettendoci sotto un pezzo di carta piegato male. È fatta di gesti quotidiani che diventano fatiche erculee, del silenzio che segue la domanda “com’è andata a scuola?”. Quel silenzio è così pieno di tutto e di niente che potresti gridarci dentro per ore e non sentire mai l’eco. È fatta di momenti in cui tutti gli altri corrono e il tuo bambino no, perché no, perché “voi aspettate”, perché “non è pronto”, perché “non sa”, come se sapere fosse un automatismo e non un lusso.
Nel secolo dell’apparire, noi viviamo nel paradosso di volere l’invisibilità. Di desiderare di non essere notati. Perché essere notati, per noi, significa essere marchiati. Significa dita puntate, occhi che non sanno dove guardare, domande bisbigliate a bassa voce ma comunque udibili. Come quel “Ma è normale?” che ti si pianta nello sterno come un ago anestetico, solo che non anestetizza niente.
Quelle domande che non andrebbero fatte…
Ci si abitua a tutto, anche a questo. Ci si adatta, come l’organismo che cambia forma per sopravvivere in un ambiente ostile. Si impara a vivere senza la normalità, e questo fa strano, soprattutto se nella vita hai sempre fatto di tutto per evitarla. Quando sei cresciuto sentendoti altro, diverso, originale, centrico, eccentrico, è beffardo trovarsi a desiderare il tepore tiepido della banalità. La domanda banale tipo “Quanto manca?” detta nel retro dell’auto mentre si va al mare: una richiesta che per te sarebbe come una canzone di Mozart cantata da Dio. Ma niente. C’è solo silenzio.

E poi c’è lui. Un bambino bellissimo. Ma di quella bellezza che, come diceva qualcuno, “non balla”. Non che non possa. Semplicemente il mondo che sente dentro di sé è un’opera d’arte astratta e la lingua, e le parole, per dirlo non esistobo. Così ti arrangi con olofrasi, tentativi, interpretazioni, mimica, un’intera disciplina da apprendere senza istruzioni.
Un appello gentile (ma fermo): scegliete le parole con cura
Questa è la nostra storia. Ma potrebbe essere quella di tanti. Tutte diverse. Inutili da uniformare. Vi chiedo solo una cosa, se posso. Non fate come la signora al ristorante. Quella che con la bocca storta e la voce educatamente sconcertata ha chiesto alla sua amica: “Ma è normale?”
Vi prego: non siate quella signora. Non c’è nulla di normale. E in questo mondo anormale, l’unico lusso che ci possiamo concedere è quello di essere gentili. Le parole, dopotutto, fanno più male delle spade. Perché le spade si vedono. Le parole no.
In fondo, nessuno vuole davvero sapere come stai. Le persone chiedono solo per educazione, per assolvere un rituale sociale ormai privo di senso, come le cene di Natale o i compleanni dopo i trent’anni. La sofferenza altrui disturba, puzza, ha un odore chimico che la società vuole deodorare con buoni sentimenti in offerta.
Gentilezza radicale: l’unica forma di civiltà che ci resta
Nessuno vuole vedere davvero cosa significhi vivere con una forma di infelicità non catalogabile, non addomesticabile, che non produce né storie edificanti né numeri da dare in pasto alle statistiche dell’inclusione. La verità è che ognuno combatte per mantenere intatta la propria piccola zona di comfort, e tutto ciò che la turba – disabilità, dolore, diversità – va messo fuori campo. Come un rifiuto organico che puzza troppo per stare in casa.

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Ma la vita non fa sconti, e prima o poi ti presenta il conto. E a quel punto capisci che la normalità era solo una costruzione fragile, un accordo implicito tra corpi funzionanti. Noi, invece, viviamo oltre l’accordo. Viviamo nello scarto. E da lì osserviamo il mondo con una lucidità che, se non fosse così dolorosa, sarebbe quasi poetica. Ma non lo è. È solo vera.
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