C’è una nuova figura, sempre più diffusa tra le viuzze dei centri storici, le fiere della creatività consapevole e gli account Instagram con palette seppiate: l’artigiano della moda etica che si atteggia a filosofo. Non si tratta solo di sarti. Parliamo anche di pellettieri che parlano come Plotino, creatori di bijoux che citano Heidegger mentre infilano perle su un filo cerato, e designer di cappelli che, davanti a un basco in feltro, sospirano come se stessero componendo un Haiku sulla transitorietà dell’essere.

Hanno abbandonato ogni marchio visibile (giustamente), ma compensano con una presenza scenica fortissima, fatta di silenzi selettivi, mani levigate dal lino grezzo e sguardi che non giudicano, ma osservano. Il loro laboratorio è sempre un “atelier”, il loro prodotto un “pezzo unico”, il loro packaging una “scelta etica”. Tutto bello, tutto vero. Tutto molto, molto costoso. Perché la loro sostenibilità, per quanto teoricamente condivisibile, non è sostenibile per i comuni mortali.
Le contraddizioni della moda etica e artigianale
Un portachiavi in cuoio recuperato costa quanto il tagliando dell’auto. Un anello “modellato a mano sotto la luna nuova” ha il prezzo di una mensilità universitaria. Una camicia tinta con bacche dell’Appennino viene venduta con la stessa nonchalance con cui si pronuncia la parola “antropocene”. La colpa non è loro, sia chiaro. Sono spesso bravissimi. I loro prodotti durano, invecchiano bene, raccontano qualcosa. Ma è il contesto che li trasforma in oggetti di culto destinati non più a vestire corpi, ma coscienze.
Chi li acquista non compra solo un cappotto: redime il proprio privilegio con un gesto etico certificato in dieci stories. Così, nel tentativo di sfuggire alla moda urlata, abbiamo creato un’élite che sussurra, ma si fa
pagare come se gridasse. Un’estetica del vuoto elegante, in cui il minimalismo costa più del barocco, e la spiritualità del “fatto a mano” diventa, paradossalmente, marchio identitario fortissimo.

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