È inutile negarlo: Tom Cruise è Ethan Hunt. Non stiamo parlando di immedesimazione: l’attore negli anni si è completamente fuso col personaggio. Anche perché è proprio lui ad aver creato la saga di Mission: Impossible. Grande fan dell’omonima serie tv anni ’60, negli anni ’90 convinse Paramount, che ne aveva i diritti, a trasformarla in un film. Il primo prodotto dalla sua (appena fondata) compagnia cinematografia, la Cruise/Wagner Productions. Fu sempre lui a scegliere Brian De Palma come regista del primo indimenticabile capitolo. E a decidere di fare i suoi stunt da sé, senza usare controfigure.
Tom Cruise è Ethan Hunt: la saga come autoritratto epico
Negli anni Cruise si è totalmente dedicato a questa parte della propria carriera: realizzare le scene d’azione più assurde, difficili e pericolose. Ogni volta alzando il tiro (e il rischio). Al punto da far sorgere il dubbio che, più o meno consapevolmente, cercasse l’immortalità proprio sfiorando sempre più da vicino la morte sul set. Al film capostipite, uscito il 22 maggio 1996, ne sono seguiti molti altri, fino ad arrivare a Mission: Impossible – The Final Reckoning, l’ottavo, e, per ora ultimo nelle intenzioni, film della saga.
Nelle sale italiane dal 22 maggio (sì, sempre quella data, proprio a voler chiudere il proverbiale cerchio), dopo l’anteprima in grande stile al Festival di Cannes, la conclusione delle avventure di Ethan Hunt ci ha lasciato con diverse perplessità.

Un film che celebra il passato e teme il futuro (con qualche buco nella sceneggiatura)
Già il film precedente, Mission: Impossible – Dead Reckoning, che costituisce la prima parte della conclusione (inizialmente annunciato con il titolo Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte uno), aveva qualcosa che non andava. 163 minuti sono tanti per un prologo: e il film 2023, in sostanza, è proprio questo. Ci si sarebbe dunque aspettati che in questa seconda parte del lungo addio di Cruise alla saga tutto fosse più veloce, asciutto e spettacolare. E invece il lungo addio è diventato lunghissimo: nella prima ora di Mission: Impossible – The Final Reckoning non succede nulla. Sì: dopo un’ora il film (altri 170 minuti) non è ancora cominciato. Assistiamo a una carrellata (estenuante) di riassunti e spiegazioni (anzi “spiegoni”).
Viene perfino usato lo stratagemma di borisiana memoria “lo dimo”: ormai 60enne, Cruise nemmeno ci prova più a far vedere i propri combattimenti con altri. Preferisce farli vivere al pubblico attraverso gli occhi delle co-star. Hayley Atwell nello sgranare gli occhi di fronte a uno scontro corpo a corpo inesistente tra Cruise e un gigante di 30 anni più giovane è allibita quanto noi.
Dall’action al metafisico: il nemico di Ethan Hunt è l’AI
Ma d’altronde il discorso al centro del finale di Mission: Impossible è molto più filosofico e metafisico. L’antagonista supremo di Ethan Hunt è infatti l’intelligenza artificiale. Gabriel (Esai Morales), vecchia conoscenza del protagonista, ha messo le mani su un’AI sperimentale, chiamata l’Entità. Il problema è che, come nei migliori film di fantascienza, è diventata senziente. Come si combatte un nemico che è in grado di prevedere ogni tua mossa?

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Questo è il quesito con cui ci ha lasciato Dead Reckoning. In The Final Reckoning scopriamo però che, in realtà, tutto è cominciato proprio con Ethan: ogni sua scelta, negli ultimi 30 anni e in 8 film, lo ha portato allo scontro con l’Entità. Quindi equivale a dire che il nostro combatte contro se stesso e il proprio passato. Insomma, come canta Cocciante: “era già tutto previsto”.
Mission: Impossible – The Finale Reckoning. Quando finisce l’ego e dove inizia la trama?
E qui il film ci offre due spunti di riflessione interessanti. Il primo è che Ethan Hunt, la saga e quindi lo stesso Tom Cruise incarnano il vecchio modo di fare cinema. Grandi star, afflato epico, schermo gigante. In questo senso è molto romantico e decadente: c’è la celebrazione di un mondo che sta tramontando, che ha creato miti e leggende, ma ora lascia spazio a eroi e schermi sempre più piccoli. Dall’altra è una delle autocelebrazioni più smaccatamente megalomani mai viste. Cruise ci sta dicendo: “Io sono il cinema”. Che è sicuramente vero, sia chiaro: il cinema è prima di tutto movimento e l’attore è la più grande star d’azione – oltre che hollywoodiana – di sempre.

Lo dimostra anche stavolta, con due scene davvero spettacolari: una subacquea (da perdere la testa per tensione e difficoltà produttiva) e una aerea. Il problema è che tutto, sia il senso del film che la sua trama, è legato a queste scene. Da anni, da quando collabora con Christopher McQuarrie (dal quinto film, Rogue Nation, del 2015), i capitoli di Mission: Impossible ruotano attorno al “nuovo grande stunt di Tom Cruise”. E la storia ne risente. E quindi anche lo spettacolo. E il ritmo.
Cinema d’azione, un futuro diverso è possibile?
Certo, con un altro sequel illustre, Top Gun: Maverick (molto più riuscito di questi due ultimi Mission: Impossible), addirittura Steven Spielberg ha incoronato Cruise “salvatore del cinema”. Nel 2022, post pandemia, l’incasso record di quel film, diretto da Joseph Kosinski, ha ridato respiro a un’industria in crisi. E qui arriva la seconda riflessione interessante. Ma anche un po’ inquietante: esattamente come in quel finale, anche in questo la star di Hollywood ci dice, come re Luigi XV: “Dopo di me, il diluvio”. Non riesce a immaginare un futuro senza se stesso. Degli eredi sono impossibili.
In questo incarna perfettamente l’egocentrismo degli Stati Uniti e rischia molto meno di James Bond (da cui Ethan Hunt prende ispirazione): 007, in No Time to Die (2021), ha avuto il coraggio di provare a pensare un mondo senza di lui, con nuove generazioni pronte a trovare strade differenti. Ethan Hunt no: lui è l’inizio e la fine di tutto. Cosa che, paradossalmente, lo rende molto più vicino all’intelligenza artificiale che combatte: anche quella fa previsioni basandosi su dati e conoscenze passate, già viste. Chissà se, come diceva l’Harvey Dent di Aaron Eckhart, anche Ethan Hunt è vissuto tanto a lungo da diventare il cattivo.
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