C’è una strana processione che prende forma nelle notti urbane di Milano. Figure accovacciate fuori da negozi ancora chiusi, sguardi febbrili puntati sul vetro, dita nervose che scorrono listini online. Code che non si spiegano con la logica dell’oggetto, ma con quella del bisogno. Non un bisogno materiale, ma un desiderio denso, stratificato, collettivo. Il protagonista di questo bisogno collettivo che non accenna a placarsi da mesi non è un oracolo, ma un pupazzo: Labubu.
Labubu non parla. Sorride, mostra denti appuntiti, si lascia appendere alle borse con la stessa ambiguità con cui un idolo tribale si lega al collo del cacciatore. È minuscolo, peloso, storto. È un feticcio, nel senso più puro del termine: una creatura totemica che concentra su di sé proiezioni affettive, identità tribali e appartenenze generazionali.
Oltre la nostalgia, un rito collettivo
Nato nel cuore della cultura illustrata asiatica, Labubu ha il corpo di un elfo medievale e lo sguardo di chi ha assistito al declino della magia. Ma è nelle mani degli adulti, più che in quelle dei bambini, che ha trovato il proprio regno. Appeso alle Birkin e alle Miu Miu, non si limita a decorare: segna, invece, un territorio simbolico. Quello di una generazione che si aggrappa all’infanzia non per regredire, ma per rinegoziare il presente.

Non si tratta, qui, di nostalgia. Nostalgia è l’album dei Pokémon, la cartella Invicta, la prima puntata di “Detective Conan”. Labubu è altro. È il tentativo di recuperare un archetipo emotivo in un mondo che l’ha svuotato. È l’infanzia come linguaggio, come codice di affiliazione. Indossare Labubu è parlare a chi sa, è riconoscere negli altri la stessa fame di totem, la stessa urgenza di senso.
Labubu in blind box: l’eccitazione del patto con il caso
È curioso che tutto questo accada attraverso un oggetto distribuito in blind box: scatole chiuse, senza garanzia di contenuto. Come i dadi lanciati negli oracoli arcaici, il Labubu che si ottiene non è solo il risultato del consumo, ma di un patto con il caso. Ogni personaggio pescato è un segno, un messaggio, una forma possibile del proprio sé. E così il gioco si trasforma in rito, l’acquisto in esperienza quasi mistica.
Nei thread online e nei gruppi di scambio, i collezionisti si raccontano, si confessano, mostrano doppioni come ferite aperte e figure rare come talismani. Parlano con il linguaggio delle comunità chiuse: serie limitate, edizioni evento, icone segrete. Non c’è ironia, non c’è distanza. Solo un desiderio potente e serio, lo stesso che spingeva gli sciamani a intagliare legni parlanti. Labubu non è un peluche: è un testimone. Parla, anche se non ha voce. Dice: “Ecco chi sei, anche se non sai dirtelo”.

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Oltre il digitale: Labubu e il paradosso della fisicità
In un mondo in cui ogni cosa tende a sciogliersi nella virtualità, Labubu è paradossalmente fisico. Sta nelle mani, si tocca, si desidera. E soprattutto, si mostra. È un emblema visibile, tangibile, fotografabile. Ma è anche un cortocircuito: un mostriciattolo tenero che interrompe l’estetica minimalista, che si impone con il suo “brutto carino”, con la sua mascella storta, con le orecchie spropositate. È un sabotaggio dolce della logica del bello. È la rivincita dei corpi asimmetrici, degli oggetti che non rassicurano ma interrogano.

Così, nella coda fuori dal negozio, nelle notti passate a ricaricare una pagina web, in quell’attimo sospeso in cui la scatola si apre e si rivela il contenuto, si compie una danza antica. Non si compra solo un pupazzo. Si prende parte a una liturgia nuova, che non ha altari né sacerdoti. Ma che resta sacra. Perché, in fondo, anche nel mondo del capitalismo più spinto, sopravvive il bisogno di miti. E Labubu, con la sua faccia storta e il suo sorriso disarmante, è uno dei più recenti. E dei più umani.
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