In questi giorni, le dichiarazioni di alcuni personaggi pubblici hanno acceso il dibattito sull’importanza del voto. Geppi Cucciari, durante un monologo, ha affermato: “Andate a votare, è un diritto, e disertare per indifferenza è una forma di resa”. Marco Mengoni, ospite a “Che Tempo Che Fa”, ha ribadito: “Votate chi volete, ma andate.” Queste parole hanno scatenato reazioni diverse, portando alla luce un tema delicato e attuale.
Votare è tornato a essere un atto sovversivo?
Nell’epoca in cui ogni gesto viene prima letto in chiave ideologica e solo poi interpretato secondo logica, dire che bisogna andare a votare è diventato un atto sovversivo. Anzi, un’aggressione. Geppi Cucciari, in fondo, non ha detto niente di più che questo: votare è un diritto, e disertare per indifferenza è una forma di resa. Non una posizione rivoluzionaria. Non una sovversione della morale comune. Solo una constatazione elementare. Tipo: bere acqua fa bene. L’aria serve per vivere. Oppure: la democrazia è un condominio rumoroso, ma meglio del fascismo.
Eppure, come sempre, il colpo di scena non tarda ad arrivare. È bastato un monologo – ironico, elegante, neppure aggressivo – per scatenare la frustrazione viscerale dell’Internet italiota, quel vivaio perenne di rancore digitale e analfabetismo civico con accesso illimitato ai commenti.

Quando si vince con l’assenza e non con gli argomenti…
Cucciari non ha detto “votate sì” o “votate no”. Ha detto: “votate”. Ma in un Paese in cui una parte politica ha scoperto che può vincere non con l’argomento ma con l’assenza, anche l’appello al voto suona come una minaccia. Perché se la gente va davvero a votare, magari non vince chi conta sull’apatia. Perché l’astensione, ormai, è una strategia mascherata da posizione etica. Un modo per farsi scudo dietro l’indifferenza e allo stesso tempo esercitare il potere. E allora meglio non andare, meglio boicottare. Meglio dire che il sistema è marcio così da non doverci mettere mano. Meglio coltivare la retorica della rinuncia, che tanto ha sempre un’aura romantica: il disertore come eroe.
Geppi, nel frattempo, riceve insulti. La chiamano “comunista”, che è il nuovo “strega” del medioevo digitale. Le danno della “radical chic”, perché chiunque abbia letto un libro e sappia parlare in TV senza sbagliare il congiuntivo deve per forza far parte di un’élite da bruciare sul rogo social. Le dicono che non deve “fare politica”, come se invitare al voto fosse un atto di militanza. Come se ricordare l’esistenza dell’articolo 48 della Costituzione fosse una propaganda subliminale, un lavaggio del cervello. Come se partecipare fosse già uno schieramento. Come se vivere non fosse già, di per sé, un atto politico.
Costituzione Italiana, Articolo 48: questo sconosciuto
In tutto questo, il paradosso cresce come una pianta infestante: i soliti noti che piangono per la morte della partecipazione, per l’apatia giovanile, per i social che rincoglioniscono la generazione Z, sono gli stessi che ora gridano allo scandalo perché una comica ha ricordato che c’è un referendum. Avrebbero preferito il silenzio. Avrebbero preferito che tutti rimanessero a casa, con lo stesso entusiasmo passivo con cui si guarda l’ennesima replica di “Ciao Darwin”. Perché così è più facile vincere. Perché con l’astensione, di fatto, si parte con un 30% di vantaggio: quello dei disillusi, dei confusi, dei disinformati, degli stanchi. Meglio un Paese che dorme piuttosto che uno che decide.
Nel mondo in cui viviamo ogni tentativo di risveglio è accolto con disprezzo. La gente preferisce essere presa in giro piuttosto che chiamata alla responsabilità. Preferisce essere spettatrice, non protagonista. Perché il protagonismo fa paura. Implica scelta. Implica conseguenza.
A margine, mentre il polverone digitale continua a sollevarsi contro Geppi Cucciari — colpevole di aver ricordato l’ovvio — e mentre Marco Mengoni, ospite a “Che Tempo Che Fa’”, insiste nel ricordarci il nostro diritto a partecipare e si organizza con i musicisti per non mancare al suo appuntamento con la democrazia – “Votate chi volete, ma andate”-, spunta un commento tra i tanti, sotto un post sul profilo Facebook del Corriere che riporta le parole del cantante. È di un tale El Mugna, che scrive: “Quelli che dicono che non andranno a votare sono i vecchi. Sarà un caso?”.

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Non esercitare il diritto di voto è una diagnosi, delle peggiori.
Chissà, magari facendo riferimento a quel “da Presidente del Senato ci penso, ma farò propaganda affinché la gente se ne stia a casa” dichiarato dal “vecchio” e nostalgico senatore.
No, Mugna. Non è un caso, è una diagnosi. E come tutte le diagnosi peggiori, arriva troppo tardi, e fa male solo a chi ha ancora voglia di guarire. E allora, sì, il problema non è Geppi Cucciari, il problema è la nostra incapacità patologica di reggere l’ovvio. Il dilemma è che oggi, ricordare che il voto è un diritto è già una colpa. E il colpevole non è chi mente, ma chi ricorda. Chi ti dice che puoi alzarti. Che puoi partecipare. Che puoi decidere.
Il resto è silenzio. Un silenzio che piace a molti, perché è il rumore perfetto dell’obbedienza.
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