Un pennino, una risata tagliente, vignette che hanno disegnato un Paese e molte epoche. Oggi diciamo addio a Giorgio Forattini, il padre del fumetto satirico italiano. Forse ineguagliato, di sicuro unico nel rigore della sua ironia e nel suo essere super partes.
È morto oggi, a 94 anni, Giorgio Forattini, il vignettista che per oltre mezzo secolo ha raccontato – e spesso irriso – la politica italiana con la stessa puntualità di un editoriale. Solo che, al posto delle parole, usava un pennino e una risata tagliente.
Nato a Roma nel 1931, aveva fatto mille mestieri prima di approdare al giornalismo: operaio in raffineria, rappresentante di carburanti, dirigente discografico. Poi, a quarant’anni suonati, vinse un concorso di Paese Sera e iniziò la seconda vita: quella del disegnatore satirico che avrebbe trasformato la vignetta in prima pagina in un rito quotidiano. Con la Repubblica, La Stampa, Il Giornale e il QN ha attraversato quarant’anni di storia italiana, ridisegnando ogni giorno un Paese che cambiava faccia, governi e morale.

Forattini: una satira che non ha mai fatto sconti
Forattini non risparmiava nessuno: né la sinistra che amava provocare, né la destra che non lo amava affatto. Da Craxi a D’Alema (da una sua denuncia, poi ritirata, nacque lo strappo con Repubblica), da Prodi a Berlusconi, tutti finirono sotto la lente – o meglio, sotto il tratto – del suo sarcasmo. Non era tenero, ma non era nemmeno cattivo: era un moralista all’antica, convinto che l’ironia fosse una forma di igiene pubblica. In tempi di sdegno digitale, ricordarlo significa anche ricordare che la satira, per essere viva, deve far male almeno un po’.
Il coraggio delle proprie idee
Nonostante le polemiche, Forattini non si è mai nascosto dietro la prudenza. Diceva spesso che “la matita non è un’arma, ma un termometro” e il suo segno lo usava per misurare la febbre della democrazia. Quando nel 1999 lasciò il quotidiano laRepubblica, dopo la querela di D’Alema, molti parlarono di rottura. Per lui fu, però, solo coerenza: l’idea che la satira, per funzionare, dovesse restare libera anche dal giornale che la ospitava. Aveva un rispetto profondo per il mestiere, un disprezzo quasi tenero per il potere. E, soprattutto, la convinzione incrollabile che ridere – soprattutto di sé stessi -, fosse l’unico modo serio di capire la politica italiana.
La sua matita, spietata e teatrale, è stata cronaca e costume insieme: l’Italia vista dal retropalco, dove le maschere cadono. Fu il primo a portare una vignetta in prima pagina tutti i giorni, a far ridere e arrabbiare nello stesso momento. Trasformò la politica in un palcoscenico di personaggi riconoscibilissimi, con i loro nasi, i loro baffi, le loro manie. Apprezzato, almeno pubblicamente, da De Mita come da Berlusconi, una delle citazioni più belle nei suoi riguardi, resta quella di Giulio Andreotti: “Forattini mi sembra eccezionale. Quanto a me, ho un gran vantaggio. Nessuno, nemmeno Forattini, potrebbe imbruttirmi”.

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Dal Forattone in poi: una memoria collettiva
Con le sue raccolte (Il Forattone, Guai ai vincitori, C’era una volta un pezzo di legno) ha firmato un archivio della nostra memoria collettiva. Qualche volta finì in tribunale (perse la causa contro Craxi, agli albori degli anni ’90) altre volte in prima serata; ma in fondo, per lui, la querela era solo un altro modo per capire che la battuta aveva colpito nel segno.
Oggi se ne va uno dei pochi che hanno saputo raccontare il potere senza cercarne la compagnia. Ci lascia un’eredità di matite, di sorrisi storti e di domande scomode. E chissà, forse starà già disegnando un angelo che sussurra: “A forza di vignette, Forattì, t’hanno preso sul serio anche quassù”.
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