Milano, 22 giugno 2025. È morto a 98 anni Arnaldo Pomodoro. Con lui se ne va uno degli ultimi grandi maestri dell’arte del secondo Novecento, uno scultore che ha inciso nella materia, e nel pensiero, il suo tempo. La sua opera non ha mai cercato di rassicurare. Al contrario: ha cercato di aprire, letteralmente, superfici troppo lisce, strutture troppo compiute. Di mostrare cosa si cela dietro l’illusione dell’armonia.
Pomodoro non ha mai concepito la scultura come decorazione. Per lui era atto critico, gesto rivelatore, architettura del dubbio. Le sue sfere, i suoi obelischi, i suoi dischi monumentali sono forme che portano in sé il trauma dell’apertura, della lacerazione. Frammenti meccanici, sezioni interne, fratture lucide: in ogni opera la perfezione viene incrinata, e in quella ferita si intravede il respiro profondo della materia.
Pomodoro: la formazione da orafo
Nato nel 1926 a Morciano di Romagna, cresciuto a Pesaro, Pomodoro si forma come orafo e scenografo. Si trasferisce a Milano a metà degli anni Cinquanta, dove entra in dialogo con i protagonisti dell’avanguardia artistica. È in quegli anni che matura un linguaggio personale, in cui convivono l’eredità dell’arte antica, il rigore dell’ingegneria e la sensibilità per la tensione storica.
Negli anni Sessanta la sua ricerca si espande oltre i confini dell’Italia: lavora negli Stati Uniti, espone alla Biennale di Venezia, si confronta con le architetture della modernità. Ma è sempre la scultura, nella sua dimensione più fisica e meditativa, a restare il centro della sua azione. Una scultura che, come diceva lui stesso, “interroga lo spazio e lo modifica, lo mette in crisi, lo costringe a reagire”.
Le sue opere pubbliche sono oggi parte dell’immaginario collettivo. Le “Sfere con sfera”, installate nei luoghi simbolici del mondo ( dal Vaticano al Trinity College di Dublino, dal Palazzo di Vetro dell’ONU a New York al Hirshhorn Museum di Washington, ndr) sono esempi perfetti di quella tensione tra equilibrio e disordine che ha definito tutta la sua produzione.

La riflessione sullo spazio: il Labirinto
C’è un’opera, forse meno conosciuta al grande pubblico, che rappresenta in modo esemplare la visione più profonda di Arnaldo Pomodoro: il Labirinto. Situato nei sotterranei della sede milanese della Fondazione Arnaldo Pomodoro, questo ambiente ipogeo non è una semplice installazione, ma una vera e propria opera totale, un percorso immersivo che condensa sessant’anni di ricerca plastica, teorica e simbolica. In uno spazio di circa 170 metri quadrati, Pomodoro ha costruito un paesaggio mentale fatto di rilievi, incisioni, segni, frammenti e presenze architettoniche. Ispirato tanto ai miti classici quanto alle stratificazioni della storia contemporanea, il Labirinto è al tempo stesso una macchina della memoria e una prova iniziatica, in cui il visitatore è invitato a perdersi, a deviare, a sostare.
Le pareti bronzee, incise con alfabeti sconosciuti, strutture atomiche, evocazioni letterarie e simboliche (da Italo Calvino a Piranesi, da Borges a Kafka, ndr) raccontano un mondo in disfacimento. E la resistenza della forma come atto di pensiero. Pomodoro lo ha concepito come un’opera viva, non definitiva, in cui ogni elemento è traccia e indizio. Visitabile solo su prenotazione, e sempre accompagnati da un mediatore, il Labirinto non offre certezze né conclusioni: chiede tempo, attenzione, abbandono. È forse qui, più che altrove, che l’artista ha trovato un luogo per rallentare il tempo e lasciare che l’opera si faccia domande al posto nostro. Un testamento in negativo, scavato nella terra, dove la scultura non si mostra ma si attraversa.
Arnaldo Pomodoro: arte in cantina
L’arte di Arnaldo Pomodoro ha trovato casa anche in luoghi inaspettati, fuori dai musei e dalle piazze: celebre il caso del ristorante Amistà, del Byblos Hotel di Verona. In un rapporto quasi romantico con il cibo nella sua forma più alta, alcune delle più celebri cantine italiane custodiscono sue opere. Sculture impegnate in un dialogo silenzioso ma potente tra materia e territorio. Alla Tenuta Castelbuono, in Umbria, Pomodoro ha firmato una delle sue creazioni più visionarie: il Carapace, una vera e propria cantina-scultura, concepita come una grande cupola di rame che sembra emergere dal paesaggio, solcata da crepe che ricordano la terra lavorata. Non è solo un’opera architettonica, ma un organismo simbolico, che celebra il legame tra natura, tempo e creazione.
A Ca’ del Bosco, in Franciacorta, Pomodoro ha invece realizzato il Cancello Solare: un portale monumentale di cinque metri di diametro che si apre in due semicerchi, come un sole spezzato che introduce al rito della vigna. Commissionato da Maurizio Zanella, il cancello è al tempo stesso scultura e soglia, icona e accesso, metafora del sole come nutrimento dell’uva e dell’arte come linguaggio permanente. In questi luoghi, l’opera di Pomodoro non è solo presenza estetica: è tempo fermato, forma che custodisce un paesaggio, gesto che trasforma il quotidiano in eterno.

La creatività oltre la scultura
Pomodoro è stato anche scenografo, autore visivo per il teatro e per l’opera, collaborando con testi e autori come Genet, Pinter, Stravinskij, Koltès. E promotore culturale, con la creazione nel 1995 della Fondazione Arnaldo Pomodoro, un luogo che non solo custodisce il suo lascito, ma ospita e sostiene la nuova scultura contemporanea.
Nel suo percorso ha ricevuto alcuni tra i più importanti riconoscimenti del panorama artistico mondiale: dal Praemium Imperiale della Japan Art Association al Leone d’Oro della Biennale di Venezia, fino all’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana.

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L’eredità di uno scultore
Eppure, al di là dei premi, ciò che resta è un’opera che parla ancora, oggi forse più che mai, al nostro presente. In un’epoca ossessionata dalla superficie, Pomodoro ci ha insegnato a guardare dentro. A non fidarsi dell’apparenza. A cercare nei meccanismi profondi della forma una verità più scomoda, ma più reale.
Le sue sculture continueranno a parlarci. Non sono monumenti, ma interrogazioni. Non sono simboli, ma sistemi aperti. Sono mappe interiori, tracciate nel bronzo, nell’oro, nel rame.
Pomodoro ha insegnato a vedere dentro le cose. E dentro di noi. Quel gesto resta. E ci riguarda.
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