Una stupenda vista notturna di Torino, città protagonista dei prossimi The World's 50 Best Restaurant
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50 Best a Torino: il grande evento che nessuno vede

Tra Lingotto blindato, cene segrete e un Piemonte che resta fuori dal racconto, l’avventura dei 50 Best a Torino sembra un’occasione sprecata. O forse no.

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L’avventura dei 50 Best — i 50 migliori cuochi del mondo, mica pizza e fichi — è ufficialmente cominciata. Torino si prepara, o almeno dovrebbe, ad accogliere i più grandi nomi dell’alta cucina internazionale. Il 19 giugno li proclameremo, li fotograferemo, li applauderemo. Forse.

The World’s 50 Best Restaurant: la macchina è in moto

Stanno arrivando: i giornalisti, gli stakeholders, le PR, i PR, le truppe gourmet. Tutti scortati dall’efficientissima chair italiana del premio Eleonora Cozzella, direttrice de Il Gusto, la testata gastronomica del gruppo editoriale GEDI. Punto.

Un’operazione lunga, voluta con forza dal Presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio, sotto il saggio consiglio di Bruno Ceretto, non solo mente visionaria delle Langhe ma già compagno d’avventura politica di Cirio ai tempi del Comune di Alba: uno era vicesindaco, l’altro assessore all’immagine (e che immagine!). Obiettivo: dare visibilità alla cucina piemontese nel mondo. E per questo doveva nascere un comitato organizzatore guidato da Roberta Garibaldi e Federico Ceretto. Ma poi tutti questi buoni propositi — che avrebbero probabilmente portato grandi risultati — si persero nei fumi della campagna elettorale.

Ma alla fine, i 50 Best a Torino sono arrivati. E se si guarda l’attuale classifica, la missione era più che giustificata: un solo piemontese presente, guarda caso proprio Piazza Duomo, della famiglia Ceretto. Coincidenze, sì.

Il Piazza Duomo di Alba, guidato da Enrico Crippa, è l'unico ristorante piemontese in classifica nei The World's 50 Best Restaurant
Enrico Crippa

Una lunga trattativa, tanti cambiamenti

La trattativa per ospitare l’evento è durata mesi e mesi. Alla fine si è chiusa con un bel fiocco istituzionale, annunciata pochi giorni prima delle elezioni in una conferenza stampa in collegamento con Londra, guidata dall’allora direttore de Il Gusto, Luca Ferrua (sì, quello poi caduto in disgrazia, ma che all’epoca era ancora in sella). Il tutto per una cifra che oscilla – a seconda delle fonti – tra i 2 e i 2,7 milioni di euro. Pubblici. Perché la visibilità costa, soprattutto quella che si compra.

Nel frattempo, però, qualcosa è cambiato. Cambiata l’amministrazione, cambiata forse anche la convinzione nell’evento. I 50 Best, oggi, a Torino, sembrano passare un po’ in sordina. Cene riservate, eventi blindati, poca comunicazione pubblica. A brillare davvero, finora, è Buonissima, la rassegna gastronomica creata da tre giornalisti (Cavallito, Lamacchia, Iaccarino) e dallo chef Matteo Baronetto. Un programma vero, visibile, comunicato. Che funziona. E che, paradossalmente, parla più della Torino del cibo dei 50 Best stessi.

Il Lingotto di Torino sarà la sede della premiazione di The World's 50 Best Restaurants 2025
Lingotto, Torino, vista notturna

50 Best si, ma dove? Il Lingotto è la scelta giusta?

Poi c’è la questione Lingotto. Tutto si svolgerà lì dentro, nei suoi padiglioni chiusi al pubblico, difficili da vivere se non si è invitati. Scelta curiosa. Era stata avanzata, ai tempi della giunta precedente, un’alternativa scenografica e nobile: Palazzo Madama, Teatro Regio e Palazzo Reale, in un triangolo tutto luci e tappeti rossi. Ma nulla da fare. Si resta dentro il Lingotto. Con buona pace della città, che non si accorgerà mai davvero di cosa le sta passando sotto il naso.

E il Piemonte? Dov’è, in tutto questo? Bella domanda. Il rischio è che dopo aver pagato il biglietto, non salga nemmeno sul palco. Perché l’evento non solo è inglese, ma è stato acquistato e gestito da un’agenzia spagnola, a cui – pare – non è passato nemmeno per l’anticamera del cervello di costruire una narrazione enogastronomica piemontese. Niente prodotti locali, nessun racconto del territorio, nessuna grande esperienza aperta alla città. Fortuna che qualcuno, all’ultimo, pare sia riuscito a infilare un po’ di Piemonte nei buffet ufficiali. Pare.

L’After Party

Intanto si annuncia il gran finale, che avrebbe dovuto tenersi in uno dei locali più in voga di quest’estate torinese, il One, a due passi dal Parco del Valentino. Ma — non si sa perché — la Torino più cool non ha voluto i grandi cuochi. L’after party ci sarà comunque, firmato Massimo Bottura, che si è recentemente espresso dicendo che l’Italia deve imparare a fare a meno della pasta ripiena. Vedremo se terrà fede alle sue parole. Con lui, anche Franco Pepe, monumento vivente della pizza italiana.

L’Italia cosa vincerà in questa edizione dei 50 Best?

E poi, finalmente, i riflettori: il podio, i vincitori, le previsioni. Nessun italiano al primo posto, salvo miracoli. In bilico tra Francia e Spagna, come da copione.

Tanto clamore, tanti soldi, tanta attesa. A beneficiarne – forse – non sarà il Piemonte, ma l’Italia tutta. Perché i giornalisti accreditati andranno in giro, mangeranno, racconteranno. Qualcuno dice che la vera partita si giocherà l’anno prossimo, con più italiani finalmente in classifica. Forse Mammoliti, forse Condividere, forse qualche new entry ispirata da questo strano melting pot gastronomico. Chissà.

Nel frattempo ci godiamo lo spettacolo.
Anzi no. Ce lo raccontano.
Perché lo spettacolo è blindato.

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Torino, accogliente e vincitrice comunque

Eppure, Torino è una città che sa accogliere. Che si adatta, si trasforma, si reinventa a seconda degli eventi. Perché Torino, in fondo, ha sempre bisogno di sentirsi capitale di qualcosa. E in questi giorni, passeggiando per le sue vie, non si percepisce che sta davvero diventando la capitale mondiale della cucina.
Ma è così. Sta succedendo. Sta succedendo a Torino, sta succedendo in Piemonte, sta succedendo in Italia.

Un grande evento. Uno di quelli che dovremmo saper urlare al mondo con orgoglio.
E invece, a volte, quell’orgoglio ci manca.
E lo urliamo — fortissimo — dentro una scatola.
Che a volte si chiama Lingotto.
Altre volte si chiama circolino.

Autore

  • Gian Enrico Bovese

    Emiliano, giornalista autodidatta per vocazione e per orgoglio. Ho iniziato a scrivere di cucina quando ho capito che il tortellino ha più verità di molti editoriali. Cresciuto tra i bar di provincia e le sfogline militanti, ho sviluppato uno stile asciutto, sapido, mai al dente. Scrivo di cibo come altri scrivono d’amore: con rimpianto, con desiderio, con appetito. Collaboro con testate che si ostinano a pubblicarmi e con osterie che, saggiamente, non mi fanno mai pagare. Il mio motto è: “Non fidarti di un cuoco magro né di un redattore che salta l’antipasto"

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Scritto da
Gian Enrico Bovese

Emiliano, giornalista autodidatta per vocazione e per orgoglio. Ho iniziato a scrivere di cucina quando ho capito che il tortellino ha più verità di molti editoriali. Cresciuto tra i bar di provincia e le sfogline militanti, ho sviluppato uno stile asciutto, sapido, mai al dente. Scrivo di cibo come altri scrivono d’amore: con rimpianto, con desiderio, con appetito. Collaboro con testate che si ostinano a pubblicarmi e con osterie che, saggiamente, non mi fanno mai pagare. Il mio motto è: “Non fidarti di un cuoco magro né di un redattore che salta l’antipasto"

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